Un percorso lungo dieci anni, che dall’idea di due chitarristi si è poi sviluppato in quello che sentiremo (allargando, sempre di più, la formazione) in questo A Chair At The Backdoor. L’idea, di quello che poi col tempo è diventato un quartetto (aperto, ovviamente, anche a collaborazioni esterne), del progetto ligure Giant The Vine: un insieme di atmosfere post, movimenti dal chiaro sapore progressivo, influenze jazz. Insomma, il risultato è un disco che non bada a barriere e confini, ma tende ad inglobare quanto più aggrada ai musicisti che ne prendono parte.
E non c’è un singolo episodio, dei sette che compongono il disco, che abbandona questa visione.
Già in apertura, con Protect Us From The Truth, la linearità di un certo post-rock orchestrale (mi vengono in mente i Maybeshewill ma anche alcuni From Monument To Masses) viene fatta inciampare su dettagli prog: riff storti che un po’ richiamano i Poly-Math anche se in chiave meno immediata. Ciò che risulta è musica per anime irrequiete, che non riescono ad accontentarsi di un solo modo di vivere, ma che cambiano idea e comportamento di continuo. In un brano solo, convivono più anime, più influenze classiche (penso a King Crimson e Porcupine Tree) e non (i gruppi citati in precedenza ma anche, per esempio, i Mogwai).
Glass, secondo episodio, vira su sonorità più orecchiabili, vicine quasi al rock alternativo, lievi al punto di far immaginare una camminata sul vetro (esatto, il vetro che si menziona nel titolo): gentili crepitii e fragorose esplosioni morbide convivono nello stesso ambiente, facendo attenzione a non mandare in frantumi la fragile superfice che si sta percorrendo musicalmente. Delicato, in un certo senso, come gli interventi del piano di Ilaria Vrenna.
The Potter’s Field è una successione di arpeggi carichi di tensione, un incrocio strettissimo di corde che quasi toglie il fiato. Un momento di tormento prima di Jellyfish Bowl, che trasporta l’ascoltatore tra evoluzioni subacquee, alternando respiri minimali e lievi onde che piano piano si trasformano in nuotate e respiri a pieni polmoni. I tasti del piano (che questa volta è di Simone Salvadori) e le corde delle chitarre galleggiano nel mezzo di una miriade di meduse.
La tensione vista precedentemente torna a farsi sentire in The Heresiarch, che possiamo definire come il brano più nervoso dell’intero disco: ondeggiamenti distorti in cui tutto è ansia ed eccitazione, una sequela di riff storti di chitarre che si intrecciano su basso e batteria che sanno bene come e quando colpire. Un brano così tirato che si conclude, improvvisamente, sull’orlo della traccia successiva, spegnendosi all’istante, restando fermo immobile, in bilico, sotto la pioggia pianistica di The Inner Circle che piano piano passa, e lascia il cielo libero e sgombro. Lasciando spazio all’atto conclusivo, A Chair At The Backdoor, che in un certo senso può essere considerato il brano più tipicamente post dell’intero lavoro: ritmiche sbilenche, campionamenti (se prima parlavo di Maybeshewill e soprattutto From Monument To Masses, qui è dove queste influenze si sentono di più); un continuo intreccio ed inciampo dell’arrangiamento rendono questo momento l’episodio perfetto per concludere un disco che ha fatto della diversità, della varietà, la propria bandiera. A fine album risulta tutto perfetto, con i momenti orchestrali (e non solo, anche il sax di Gregory Ezechieli) che affiorano a richiamare l’inizio dell’album, quadrando il cerchio in maniera precisissima.
C’è sempre più bisogno di band del genere, capaci di inglobare e riordinare una serie di influenze apparentemente distanti tra loro: questo disco, per esempio, è un’ottima prova di come e quanto è affascinante riuscirci.