Three Second Kiss – From Fire I Save The Flame (2024, Overdrive Rec.)


Agli appassionati di una certa scena, di sonorità matematiche, rumorose e spigolose, il nome Three Second Kiss non suonerà nuovo. Anzi, lascerà un senso di piacevole stupore, vedendolo riapparire dopo dodici anni dall’ultimo lavoro.
Dopo Tastyville (fuori per Africantape nel 2012), è ora il momento di From Fire I Save The Flame, episodio numero sette di una discografia che su graffi distorti e ritmiche incalzanti ha fondato il proprio suono, rendendolo riconoscibile e personale.

From Fire I Save The Flame, rilasciato da Overdrive Records, porta avanti un discorso noise rock volutamente complicato, reso appositamente difficile da seguire, tra corde che si intrecciano caoticamente e percussioni che sottolineano, egregiamente, il tutto. Devo, per forza di cose, mettere le mani avanti e dire che aggettivi come “complicato” e “difficile” – in questo caso – non sono da leggere con accezione negativa. Anzi, e questo chiarimento sarà facile da comprendere agli ascoltatori abituati a sonorità math, può solo essere un punto positivo in più. Basta prendere in esame Soul Catchers, prima traccia dell’album, per essere travolti da una scarica di riff acidi tenuti su da una miriade di percussioni magmatiche. Sarà che parte del gruppo da Bologna è volata all’ombra dell’Etna e – per questo – il sound della band ha inglobato tutto il calore di una terra che brucia in continuo movimento.
I riferimenti e i richiami che (manco tanto) piano piano vengono allo scoperto durante l’ascolto del disco sono chiari: non citerò gli Shellac (ma la rabbia della chitarra è la stessa), non citerò gli Uzeda (ma nello strumentale alberga la stessa tensione) e non citerò tutta una serie di gruppi che a queste sonorità ha praticamente venduto l’anima, ma sappiate che sono tutti stretti nello stesso abbraccio rumoroso.

La voce sembra quella di uno sciamano in preda ad una psichedelia sfrenata (in Mother l’impressione si fa man mano più forte), mentre lo strumentale nasconde lo spirito punk, i già citati ronzii del noise, gli spigoli del math: l’assoluta non-voglia di essere lineari. Come in Garum, dove i TSK affrontano un discorso da A a B, ma si divertono a saltellare per l’intero alfabeto.
E si divertono a nascondere tensione e nervosismo anche nei momenti più insospettabili (le due Intermission).
First Blood Spills dà il via ad una sequela di stop’n’go gestiti in maniera impeccabile: poco meno di tre minuti in cui i martellamenti della batteria dettano le fermate – precisissime – delle corde. Il tutto senza che uno strumento (voce compresa) sovrasti l’altro: tutti i brani sono un’amalgama precisa e minuziosamente equilibrata di strumenti che procedono insieme formando un unico muro di suono graffiante.
Let Me Breath The Way I Know riprende alcuni elementi della traccia precedente per poi scivolare in un’epifania di riff ripetitivi. Gli stessi riff che, ancora ripetitivi ma più tesi, tengono su Exclusion Code.
Il noise/math di cui i TSK sono tra i primi rappresentanti è fatto sì di spigoli distorti, ma non solo: come dimostra Letter From Hurtville, l’animo matematico del trio sa anche mutare in una colata lavica rumorosa.
È che alcuni brani (o meglio l’inizi di alcuni brani) del trio sembrano partire in modo anche leggero, potrei dire orecchiabile (a volte sembrano “canzoncine” alt-rock), ma è tutto un bluff: col passare dei minuti, lo strumentale degenera sempre in cose tutt’altro che leggere, ma complesse, ben studiate, in un perenne apparente equilibrio precario.
Il paragone che farò per la finale Heart Full Of Bodies potrà sembrare azzardato, ma mi ha riportato alla mente alcune cose dei Future Of The Left (di Andrew Falco, il fondatore dei McLusky): quel blues rumoroso, lento e pesante, che sa di fumo, di alcol e di sudore, che scorre lento e graffiante, e che va a chiudere egregiamente un disco scritto non a cuor leggero, ma figlio di un periodo lungo, altalenante, e sicuramente intenso, proprio come il disco in questione.

Etichetta: Overdrive Records
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