Quanto pesano tredici anni?
Quanto c’è da riordinare, da riarrangiare, da stravolgere e poi mettere in ordine in un periodo di tempo così lungo? Quante cose possono mutare, vestirsi con abiti nuovi e presentarsi in pubblico dopo quasi tre lustri?
Tutto quello che in tredici anni può succedere, i pescaresi Death Mantra For Lazarus lo riversano in DMFL, uscito lo scorso anno per Vina Records, secondo capitolo di una saga post-rock iniziata nel lontano 2010 con MU.
Nel precedente album la costruzione dei brani sembrava, ad un primo ascolto almeno, più elaborata e immediata. In questa nuova uscita, invece, il quartetto sembra virare verso sonorità – sempre di chiara impronta Post – più riflessive e sognanti, che non nascondono le proprie fragilità, anzi le usano come punto di forza.
Il disco si apre con Church Superdelay che suona come una pioggia leggerissima, con un animo slow che raramente alza la voce, parente strettissimo delle sonorità dei zugabe.
Non mancano passaggi tesi, ma è una tensione che si nasconde – benissimo – tra i dettagli: un’accelerata di batteria, una corda toccata un po’ più forte, toccano l’ascoltatore all’improvviso. E poi si ritorna con a calma iniziale: Nude tesse trame intrecciandole con una batteria che regge tutto in maniera precisa, senza perdere mai il controllo. Le corde si intersecano mentre le percussioni cambiano ripetutamente veste, s’innervosiscono anche, ma senza scavalcare mai il lavoro degli altri musicisti. Si fanno largo raggi di sole che squarciano le nuvole grigie (i dettagli orchestrali di Marbles) in un eterno restare sospesi tra uno stato d’animo e l’esatto contrario: come le ventate gelide di Laika Cold! Laika Cold! che si tiene in bilico tra sognante e distorto, sospeso tra tagliente e carezzevole.
Mina mostra la bravura del quartetto nello scrivere motivi che entrano nella testa: movimenti slowcore che richiamano ad alcune cose dei Samuel Jackson Five, fatti di tanti piccolissimi dettagli che – messi insieme in maniera così funzionale e convincente – rendono l’episodio il punto che più facilmente si farà ricordare.
I musicisti alla guida del gruppo provengono da altre band con background molto diversi (i Santo Niente, certo, ma anche i disturbati Milf e i desertici Zippo) e questo rende la loro visione molto ampia: non c’è da stupirsi se in Like Dolphins, con l’aiuto di Jester At Work, si scivola in sonorità che – al Post-Rock di base – mischiano elementi folk e blues, ma anche retrogusti country.
La band non rinnega – come già detto – l’animo Post e nella conclusiva Memory Of Us, che sembra un vero e proprio manifesto, che piano piano di scalda al punto di esplodere nel finale, rispetta tutti i canoni del genere, dimostrando che sì, il gruppo sa precisamente dove mettere le mani.