Negli anni della riscoperta di un certo post-punk, l’uscita del terzo disco dei livornesi Weekend Martyr ha senso, molto senso. Il trio riesce ad inanellare una serie di tracce credibili e a fuoco partendo dall’appena citato post-punk fino a spaziare nel garage e nel britpop, ma anche nella psichedelia, in retrogusti folk/country riuscendo ad evitare, con non poca intelligenza, di risultare random.
Gastrin (nelle cui ombre si nasconde Marco Fasolo dei Jennifer Gentle) esce a fine Gennaio 2024, dopo l’omonimo del 2019 e Wires del 2021 (entrambi fuori per Aloch Dischi), e suona tanto graffiante e ballabile quanto cupo ed oscuro. Se l’iniziale Pèrez graffia ed ammicca al genere citato in apertura d’articolo, risultando orecchiabile e distorto al punto giusto, la successiva Gastrin si traveste da dance-punk e funziona benissimo. Qui, tra chitarre funk, accelerate ballabili, un po’ di Hot Gossip, un po’ di DID e di Les Fauves i nostri riescono a dar vita ad un singolone che farebbe invidia a tanti gruppettini che, sì, ci provano ma che non riescono nemmeno a sfiorarlo un risultato del genere.
Lighter sembra quasi una novella “Coffee & TV” dei Blur, che mischia sapientemente garage e britpop: qualcuno dirà che non fanno niente di nuovo, io vi dirò che però quel niente di nuovo lo fanno veramente bene. Ed ogni traccia, finora, rimane nel cervello, in un modo o nell’altro.
Stranger trasforma totalmente il gruppo in qualcosa di inaspettato, anche se – come già detto in apertura – nell’aria c’è da sempre qualcosa di cupo, di oscuro, e tenendo questo in mente, la traccia in questione sorprende, ma in un certo senso te l’aspetti anche. Qui ci si perde in una lunga ballata psych-country, che per certi versi riporta alla mente Venus In Furs dei Velvet Underground. Una psichedelia che ritroveremo poco più avanti, in Bog, dove si ripropongono le atmosfere Velvetiane ma si sporcano negli angoli, facendo affiorare dettagli che sorprendono, mentre le ripetizioni si fanno martellanti.
Con Scammed si riscivola in una sorta di revival garagistico che un po’ mi fa sentire la nostalgia di band come i Peawees o i Mojomatics meno sporchi: un brano che – come la successiva Stunned, incendiata da chitarre taglienti – ti catapulta in un vortice di handclap e mosse scordinate.
La finale Hands è una sorta di country (un po’ gipsy, un po’ western) spinto, boicottato da chitarre ronzanti e percussioni vicine ai primi Maybe I’m. Il brano in chiusura mette in chiaro una cosa – forse la più affascinante – della band livornese: non c’è limite alle influenze da cui il trio può intingere per creare la propria musica e meravigliare l’ascoltatore.
E quindi lasciatevi meravigliare, c’è poco altro da aggiungere.