Cosa accomuna e avvicina un continente enorme e sconfinato come l’Africa ed una città come Bologna? E pensate che, avvicinando le due lontanissime realtà, sia possibile mischiare in maniera coerente e credibile percussioni tribali e distorsioni figlie di un noise rock graffiante, acido e storto? A giudicare da quanto riesce a creare il trio bolognese Iqonde con questo “Kibeho” fuori per Grandine Records direi che sì, è assolutamente possibile. Ed il risultato è tanto breve quanto convincente e affascinante.
Sei brani come lame affilatissime, intente a colpire a ripetizione l’ascoltatore. L’iniziale “Ma’Nene“ dura pochissimo, poco più di due minuti, ma è il primissimo colpo ben assestato. Distorsioni pulsanti ed acide che richiamano i We Are Knives ma che sfiorano da vicinissimo la rabbia di alcuni Zeus!: Una miscela dolorosamente piacevole di noise rock, rimandi post, storture math.
Di lì a poco, “Marabù” farà planare, a volo d’uccello, su ondate math e rallentamenti/maremoti quasi doom fin quando, almeno, non si andrà a degenerare in impazzimenti veloci e schizofrenici, perfettamente calibrati, riportando alla memoria i migliori Taras Bul’Ba. Schizofrenìe che verranno immerse in acque agitate, nella successiva “Edith Piaf“, tra percussionismi tribali e spigoli distorti, atmosfere post e correnti minime scosse da violentissime mareggiate improvvise. Un eterno susseguirsi di sonorità che cullano e scuotono, calmano ed agitano allo stesso tempo. Un film da guardare con gli occhi sbarrati, che prende piede tra lentismi da incubo: in “Lebanshò” piano piano l’immagine si distorce, i colori scivolano via, sempre di più, incollando l’ascoltatore allo schermo, facendolo altalenare tra saliscendi distorti di post-rock furioso e movimenti storti sostenuti da batterismi tachicardici. Una ricetta che, per fortuna, il trio deciderà di non abbandonare: anche la successiva “Gross Ventre“, infatti, punta le sue radici in tribalismi rumorosi che arriveranno ad incendiare uno strumentale decisamente post. Tra tempeste di corde distorte, percussionismi acidi ed accelerate infuocate prenderà piede l’ennesimo colpo assestato alla perfezione, vicino ad alcune idee dei francesi Grauss Boutique.
La batteria risulterà quindi il vero motore del gruppo, senza mai – però – scivolare in stupidi protagonismi: nella finale “22:22“, introdotta da un campionamento che non ha bisogno di presentazioni, il batterista trascinerà le corde tra mille psichedelie, tenendo uno sguardo doom su inclinazioni e deviazioni post che ricordano i True Champions Ride On Speed, senza mai sovrastare gli altri strumenti. Tutto rimane ben equilibrato, un amalgama distortissima che scuoterà dal primo all’ultimo secondo.
Il disco del trio bolognese dimostra che non serve dilungarsi troppo in inutili pippe mentali per fare un buon lavoro, riuscendo a racchiudere in meno di mezz’ora un album immediato e che funziona a meraviglia: assolutamente da non perdere.