Immaginate di essere in auto, impegnati a percorrere un’autostrada deserta e che, d’un tratto, improvvisamente, tutto si spegne. Niente luci, buio fitto, ciò che riuscite a scorgere, sforzandovi è solo asfalto dritto davanti a voi, appena illuminato dalla luna. Immaginate, poi, che questa autostrada venga ad incrociarsi con svincoli e curve, incroci ciechi, improvvisi e pericolosissimi. Ecco: la sensazione – precisa – che dà l’ascolto di questo “Safe Places” di The Glad Husbands è esattamente questa. Pezzi dritti e lineari boicottati da scontri e inciampi. Quaranta minuti fittissimi in cui si riconosce tutta la scuola di influenze dei tre membri (che salta dai Don Caballero ai NoMeansNo, passando per Refused e At The Drive-In, Jawbox e anche, addirittura, i Deftones… ma potrei citarne un’altra buona decina: che si sentono nell’aria ma che non danno affatto quell’idea di copia o di già sentito).
La proposta finisce per essere un turbinio di distorsioni incrociate, velocissime, su cui si sdraia violentemente una voce graffiante e una batteria che continua, inarrestabile, a fare un lavoro ottimo. Già dalla iniziale Out Of The Storm ci si perde tra schegge che saltano dal noise-rock al post-hardcore ma è quando si accelera vistosamente che il gruppo regala soddisfazioni a piene mani: la doppietta Where Do Flies Go When They Die? e Spare Parts, coi già citati riff schizzati corroborati da un lavoro sulla batteria, che definire perfetto potrebbe risultare addirittura riduttivo, ti lasciano lì tramortito ed affascinato allo stesso tempo. Se siete alla ricerca di distorsioni ben organizzate, a cui collaborano tutti gli strumenti (voce inclusa), senza manie di protagonismo, rimarrete – come me – sicuramente appagati.
Correrete convinti e decisi, durante l’ascolto, ma vi ritroverete a sbandare, in assurdi ed impensabili testacoda in brani come The Jar e Meant To Prevail ma da lì, ad arrivare in una sorta di Destruction Derby rabbioso, tra tamponamenti e colpi distruttivi è veramente un attimo, basti pensare ai rumorismi sferraglianti, simil-industrial (che un po’ ricordano anche i primi Ulan Bator, anche se poi lo sviluppo è totalmente diverso, ed ovviamente i Big Black) della conclusiva Like Animals.
Se siete fan di un certo noise rock (Chicago e quelle zone lì), del post-hardcore, o avete semplicemente voglia di farvi scuotere per quaranta minuti buoni: “Safe Places” potrebbe essere il vostro rifugio sicuro, perfetto in ogni dettaglio.