Entrare nell’universo e nelle corde di Matteo Muntoni, e dei musicisti che lo accompagnano in questa avventura, è come camminare sulle onde di una radio che a volte ti fa da colonna sonora, a volte ti salva, altre ti dà il colpo di grazia. Radio Luxembourg è un piccolo esperimento, anche intimo, di un musicista che si diverte a passeggiare attraverso diversi universi musicali, lasciandosi andare a confidenze private in forma di musica.
L’iniziale On The Moon è pura magia: quasi sei minuti di beat di batteria su cui si adagia una chitarra arpeggiata ipnotica e a tratti pungente, tra psichedelie che crescono, effetti che svolazzano tutt’intorno e pochi dettagli che variano impercettibilmente col passare dei secondi. Un brano costruito in maniera perfetta, che vi entrerà nelle ossa già dai primi secondi e che cambierà d’abito, al volo, scivolando nella successiva The Jellyfish Dance (drift). Qui affiora l’animo più jazzista e prog del musicista e dell’intero gruppo: spiragli lounge e geometrie mozzate catapultano l’ascoltatore tra mille meduse che danzano in preda a divertimenti schizofrenici, tra paesaggi fluidi come onde e respiri spigolosi e taglienti come scogli.
L’episodio successivo, Radio Luxembourg (Phaseout) traveste i dettagli lounge del brano precedente in abiti post, come una sorta di evoluzione-degenerazione, come un continuo ampliamento delle sonorità inglobate lungo il cammino. Un brano post in cui il crescendo andrà a finire in There’s No Time, un “brano” che farà pensare – per forza di cose – alla più che celebre composizione di John Cage, anche se (a mio parere) Matteo non ha bisogno di citazioni così evidenti per risultare interessante.
Non c’è bisogno di rifugiarsi in omaggi così comodi, non per un musicista capace di orchestrare un brano come The Man and the Journey: la colonna sonora perfetta per un viaggio intero, idealmente suddivisa in microepisodi, nettamente diversi tra loro. Le camminate calme, con il sole che ti accarezza e il procedere con difficoltà combattendo contro pioggia e vento. Calma e agitazione, piano e forte, pulito e distorto. Il giusto equilibrio tra post e jazz, bossa e prog. Proprio come la successiva Dust and Guitars: generi che camminano insieme, si mischiano ed inciampano insieme, in otto minuti di equilibrismi su corde di chitarra. Le stesse chitarre che, nella finale Werewolf Cricket, visiteranno più e più generi. In un mare di acidità le corde sapranno attendere il momento giusto per distorcersi in modo perfetto.
È un disco che all’apparenza può sembrare semplice ma che, in realtà, nasconde al suo interno una miriade di dettagli ben studiati, tutti gestiti ed orchestrati più che bene.