L’avevo già detto in precedenza, parlando del disco di NUER: apprezzo tantissimo quando un singolo musicista, invece di rintanarsi al caldo, nel rassicurante terreno del cantautorato, esce allo scoperto, esponendosi pericolosamente e affrontando – temerario – un cammino tanto intimo quanto sperimentale. Discorso valido anche per questo Holy The Abyss di colui che si nasconde dietro il moniker Golden Heir Sun.
Ciò che nasce dalle mani dall’artista veneto è la colonna sonora ideale per rituali magici e sciamanici: un lento, oscuro, cammino tra post-rock individuale, drone pittoreschi e dettagli rumoristici.
La sola traccia che compone il lavoro tende, con la sua tensione crescente, a sbatterci nel mezzo di una tempesta che parte dal basso, che scuote l’animo arrivando lentamente, percorrendo il corpo di chi ascolta piano piano, centimetro dopo centimetro.
È come una confessione fatta a pochissimi millimetri dalle orecchie: a volte a malapena si sente, altre volte prende fiato e urla fino allo sfinimento. Un racconto, più che una semplice confessione, pieno di sfaccettature diverse, di diversi stati d’animo: dalla calma all’irrequietezza, dalla rabbia all’ansia e alla paranoia, e ritorno.
Non deve meravigliare affatto la molteplicità di influenze che la singola traccia racchiude al suo interno: Golden Heir Sun ha cose da dire e se per farlo ha bisogno di usare atmosfere post, urla al limite dello screamo o dell’harsh noise, o minimalismi effettistici, lo fa, senza alcun timore.
È un lavoro breve ed affascinante, che coi suoi pochi elementi, sistemati caoticamente in strati ordinatissimi, riesce a mostrare tutti i lati – nascosti o meno – di un musicista con tante buone idee.