Vi confesso che i zugabe nel corso degli anni mi hanno sempre stupito piacevolmente e quindi, quando ho letto dell’uscita di questo nuovo, terzo episodio, intitolato sow the wind (tutto rigorosamente minuscolo) ne sono stato più che felice. L’ultima, nel senso di più recente, creatura del quartetto veronese vede la luce dopo “melodies beside the railway” del 2013 e “fragments” del 2016. Lavori in cui, rispetto a quest’ultimo, si spingeva di più. Ma non prendete questo cambio di rotta come una cosa negativa perché, credetemi, non lo è affatto.
Sow the wind percorre il binario del post-rock in una giornata da cielo grigio, una giornata lenta e uggiosa, fatta di sporadici scrosci di pioggia e raffiche di vento lievemente distorte. Già dall’iniziale “argus” vi renderete conto che il disco in questione è un album in minuscolo, così come i caratteri usati per la copertina. Ma non “in minuscolo” per intensità, affatto, ma perché è un lavoro che viene sussurrato con una dolcezza che quando deve, sa anche essere molto violenta. Ascoltare hamburg significherà muoversi tra il “cantato” dreamy e le incursioni del violoncello di Eleuteria Arena che poi andranno a distorcersi piano piano, e sarà come seminare vento e raccogliere tempesta.
L’inizio di around the cliffs farà tirare un sospiro di sollievo ai puristi del genere che aspettavano trepidanti l’arrivo di un qualche campionamento, ma il quartetto non ha bisogno di rifugiarsi in rassicuranti clichè. Qui si strizza l’occhio allo slowcore e proprio in questo brano, più che in precedenza, si sente l’essere “in minuscolo” della band. I brani ti vengono sussurrati e mai urlati, oppure quando urlano, lo fanno leggermente, come un vento che ti si infila tra i capelli e passa, lasciandoti addosso il ricordo di qualcosa di estremamente piacevole. Proprio come le distorsioni che affiorano in Like a slowcoach. Non urlano, non appesantiscono, quasi nemmeno distorcono, ma fanno benissimo il proprio lavoro senza risultare nemmeno per un attimo fuori luogo trascinandoci dritti dritti alla fine del lavoro.
In the seed – episodio finale del disco – il seme del titolo raccoglie al suo interno tutti gli elementi per la tempesta ideale, una tempesta di note ambient, post-rock, rigorosamente strumentali, anche dreamy, forse addirittura elettroniche, che vengono portate via dal vento, a conclusione di uno degli album post-rock migliori ascoltati nell’ultimo periodo.
Un disco che è una certezza per gli amanti del genere ma che può – soprattutto – essere un ottimo punto di partenza per nuovi ascoltatori. Quindi non abbiate paura di lasciarvi convincere.