Sono ritornati anche i Maybe I’m. Con la formazione modificata, sarebbe meglio dire ampliata?, di un minimo. Con l’entrata di una nuova chitarra all’interno della band si perdono un po’ quei momenti di respiro che erano presenti nei vecchi dischi e si martella, ma si martella tanto. Prima di tutto, il testo sta sotto lo strumentale: perché è quest’ultimo che vi schiaffeggia e vi scuote. Ciò che il cantante vi urla dritto in faccia vi entrerà dentro senza bisogno di passare per forza dalle orecchie.
Colonia, uscito a fine duemiladiciotto, è l’ovvio completamento di un percorso iniziato tempo fa dal duo (ora, come detto, diventato trio) salernitano: è sempre presente la vena blues, l’essere nomadi dentro, ma il tutto è stravolto ed arricchito da una vena hardcore che diventa parte fondamentale del suono di questo quarto album. È un disco altamente riottoso e critico, e lo si intuisce già dai titoli, prima ancora che dai testi.
Si parte con Nei nostri corpi arresi: blues punk caotico e noise’n’roll mischiati sapientemente, riottosità urlate e sparate alla massima potenza. E sarà un disco che non accennerà a calmarsi, a diminuire d’intensità nemmeno per un secondo: saranno poco meno venti minuti da ascoltare quasi rimanendo senza fiato. Soldatini della noia si basa su uno swing sporco, violentato da scosse hardcore che fanno degenerare il tutto in un miscuglio micidiale di rumore sbilenco. Con Non vi manca la messa? si arriva a sfiorare il grind, al limite della violenza fisica, sempre ricordando e rendendo omaggio all’animo blues sporco che il gruppo aveva, ha e avrà sempre con sé, nonostante i cambi e gli ampliamenti di formazione. Anche Dama! Finisce per ricordare i vecchi lavori (penso soprattutto a Homeless Ginga) ma in maniera totalmente più distorta.
Repressione è partecipazione, anche se scimmiotta Gaber, già dal titolo ricorda i The Shipwreck Bag Show mentre qualche altra cosa quasi impossibile da decifrare ricorda i Bachi Da Pietra (e forse un po’ esagero).
Nei tre brani finali, soprattutto in Urla e bela, si noterà forte la nota afro, figlia dei dischi passati. Ma parliamo sempre di un afro boicottato da hardcorismi che fanno immaginare un’Africa devastata da una tempesta di sabbia distorta.
L’album, come detto, non dura tanto e in fondo, è giusto così. È come ritrovarsi coinvolti in uno scontro verbale furioso, dal quale, dopo diciannove minuti, si esce apparentemente uguali a prima, ma dentro profondamente cambiati.